Gabriele Zarotti

L'insostenibile leggerezza del dire.

Dire.  
Fare, baciare, lettera, testamento.
Non mi è mai piaciuto parlare. Nemmeno sentir parlare. Anche se da bambino, appena liquidate lallazione e parole in libertà, sembra che sia stato un gran chiacchierone. Un "gran ciciarò", come usava dire mia madre, con sguardo amorevole e tono di benevolo rimprovero. 
Verso i sette/otto anni, all'improvviso, è accaduto l'inaspettato: come per incanto ho cominciato a diventare taciturno. Forse colpito da un sortilegio. La maledizione di qualche vittima della mia precoce ed effimera logorrea.

L'adolescenza l'ho passata in estrema timidezza. Avaro di parole. Davanti agli estranei, l'alfabeto, invece di articolarsi e assumere forma sensata, precipitava nello stomaco. E da lì non c'era verso di schiodarlo. Perfino il telefono mi mandava in tilt. Odiavo l'infernale macchina nera attaccata alla parete del corridoio. Temevo sempre che da un momento all'altro si sarebbe messa a squillare, costringendomi a pronunciare la fatidica domanda: pronto, chi parla? Ma era un duplex e fortunatamente l'associato stava sempre incollato alla cornetta, così da dissuadere chiunque fosse intenzionato a comunicare con casa nostra. Allora non esistevano i logopedisti. E se mai c'erano, dato il nome che si prestava a fraintendimenti, se ne stavano ben nascosti. Quanto a psicologi e psicanalisti per la gente del popolo curavano i matti.

Dopo la maggiore età, le cose sono migliorate. Il duplex è diventato simplex, ma parlare continuava a non essere il mio forte. Conversavo volentieri solo con gli amici. A volte ero perfino ciarliero. Ma niente da fare: in presenza di estranei o in pubblico, preferivo restare in silenzio. Anche ascoltare non mi faceva impazzire..Le omelie mi sono sempre sembrate insopportabili. I discorsi dal palco una noia mortale. Quelli di circostanza, non parliamone! La recita scolastica mi faceva venire lo scorbuto. Gli slogan gridati del '68, sebbene mi appassionassero, mi imbarazzavano. Preferivo di gran lunga le scritte sui muri. Meglio andava con le lezioni a scuola. Ma solo quando il prof non tromboneggiava.

Oggi, nell'era degli imbonitori, dei millantatori, dei parolai, dei grandi bugiardi, sono contento di essermi tenuto fuori dal coro. Non sopporto chi vive di parole. Come i politici. Chi ne abusa per il proprio tornaconto. Come i tuttologi. Chi le utilizza per nascondere il proprio pensiero. Chi si compiace e gode nell'ascoltarsi. Chi fa delle parole un'arma. Non posso reggere quelli che recensiscono in tivù i libri di cui sono autori. È come cantarsela e suonarsela da soli. Masturbarsi in pubblico. Quanto ai talk show mi hanno ormai portato a disprezzare il genere umano. Tanto che prenderei volentieri tutti a calci in culo. Con doppia razione per i conduttori. La parola parlata è diventata talmente aggressiva, invadente e infida da assumere false sembianze di scrittura, grazie a internet. Agli indecenti tweet e le impersonali e barbose chat. Molto meglio scrivere, ma scrivere per davvero, soprattutto per se stessi. Meditare. Fissare i propri pensieri. Rilassati e in piena libertà.

Ogni tanto mi chiedo il perché del mio blocco. Di questa avversione all'eloquio mio e altrui. Difficile trovare una risposta razionale. Resta il fatto che, per me, dire significa si spontaneità e immediatezza, ma anche mancanza di riflessione. In molti casi vuol dire leggerezza. Superficialità. Spesso Incontinenza. Spudoratezza. Ostentazione. Prevaricazione. Insomma, parlare è un vento fastidioso, un flatus vocis. Raramente piacevole brezza. Spesso un rutto. Talvolta una scoreggia vestita da scrittura, come quasi tutto ciò che infesta la rete.
Il contrario di scrivere, che è riflessione. Pensare e ripensare prima di congedare le parole. Scrivere vuol dire indagine, esplorazione, selezione, creatività. Ricerca della misura. Assunzione di responsabilità. Pudore. E anche quando diventa sfogo, invettiva, in genere è frutto di meditazione. Almeno per me. Scrivere è libertà e disciplina allo stesso tempo. Non ne faccio un assoluto, una regola. È solo un punto di vista. A volte penso che sarei dovuto nascere nel settecento, o nell'ottocento, epoche di intensi scambi epistolari. Quando anche gli insulti erano scritti con penna e calamaio, su carta pregiata, nel rispetto di forma e contenuto, tanto da diventare spesso piccole perle letterarie. Faccio notare - per restare in tema e giusto per la cronaca, - che ci sono grandi scrittori che si rivelano pessimi oratori. E individui dalla lingua sciolta, veri maestri d'oratoria, che scrivono da far pena. D'altronde, tutto non si può avere.

Dopo quanto scritto, spero non sembrerà bizzarro o sconveniente se aggiungo che non amo nemmeno le orazioni funebri, né i discorsi in memoria. Anche se comprendo che molti ne sentano il bisogno. Chissà perché suonano sempre un po' di circostanza. Hanno un vago sapore di rappresentazione. Quindi, se qualcuno dovesse precedermi, non si offenda se quel giorno resterò in silenzio. Forse starò in un angolo. Avrò gli occhi lucidi. E alla fine, con ogni probabilità, verserò qualche lacrima. Ma parole no. Magari, in seguito, scriverò un breve racconto dei bei momenti passati insieme. Quando sarà il mio turno, vi esento quindi da ogni elogio o saluto verbale. Restate in silenzio. Il silenzio è intimità. Induce a meditare e mette il nostro spirito in contatto con quel poco - di buono - che ancora resta nel mondo. Se avrete qualcosa di importante da dirmi, provate con la telepatia. Oppure scrivetelo su un foglio, piegatelo, e infilatelo nella bara, prima che venga bruciata. Ancor meglio se come estremo saluto pianterete un albero. O adotterete un gatto e gli darete il mio nome. Questo mi farà felice. Non so lui. È solo un desiderio. Ma se lo esaudirete, oltre che ringraziarvi in anticipo, vi sarò riconoscente per l'eternità.

 

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Published on e-Stories.org on 12/26/2017.

 
 

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