Mauro Montacchiesi

Seneca

Seneca, ovvero un uomo la cui esistenza è stata una continua ed assurda contraddizione nei confronti dei propri ideali filosofici:

“Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt!”
“Abbiamo negli occhi i vizi degli altri, i nostri ci stanno dietro!”
(Seneca)

Potrebbe già bastare questo aforisma, attribuito proprio a Seneca, a compendiare la paradossale esistenza del Filosofo Stoico, sempre pronto ad assurgersi a Pubblico Ministero nei confronti dei personaggi a lui scomodi ed altrettanto pronto all’auto-clemenza. Il postulato senecano ricalca quello parafrasato da Fedro, in una favola, per mezzo del quale il poeta tracio ci narra in che modo Giove ci assegnò due bisacce (Peras imposuit Iuppiter nobis duas). Una, posta sul petto e ben visibile, contenente i vizi degli altri e l’altra, sulla schiena e ben celata, contenente i nostri. Il Vangelo dice, più o meno, la stessa cosa: “Cernere festucam mos est in fratris ocellos, in propriis oculis non videt ipse trabem!” (Lc 6,41) “Vediamo la pagliuzza che è negli occhi di nostro fratello, ma non vediamo la trave che è nei nostri!”
Nel “De beneficiis”, Seneca sviluppò il principio di una società fondata su una “Monarchia Illuminata”. (Ma illuminata da chi? Da “Seneca pro domo sua?”). La tradizione storica riporta che Seneca abbia scritto il “De beneficiis” a posteriori della presa di coscienza del fallimento nell’”educazione morale” di Nerone. Forse Seneca non si era reso conto, fagocitato dai suoi stessi deliri di onnipotenza, che Nerone, nel frattempo, era cresciuto, ovvero che era diventato un uomo,
con una personalità propria, stanco delle figure soverchianti di Agrippina e dello stesso Seneca.
Seneca, in quanto Stoico, ben conosceva questa Filosofia e, in particolare, i suoi postulati fondamentali e, tra questi:
*(01) Il Mondo, in quanto strutturato e governato dal fuoco-logos, sarà ciclicamente soggetto
all’annichilamento per conflagrazione e, quindi, si ristrutturerà ogni volta simile, in eterno.
*(02) Il Cosmo è assimilabile ad un immenso organismo biologico, in cui ciascuna parte ha un
ruolo solidale.
*(03) Il Logos (Ragione), poiché immanente alle cose, governa ogni avvenimento, al punto che da
un lato ogni cosa è razionale, dall’altro ogni cosa è rigorosamente determinata.
*(04) Il Logos medesimo si identifica come un principio divino e di conseguenza determina
un’inconfutabile concezione panteistica.
*(05) Rivalutazione della legge positiva dello Stato, in quanto diretta espressione del Logos-
Principio.
Seneca, auspicando una società fondata su una “Monarchia Illuminata”, si auto-candita a “Faro” di questa “Monarchia Illuminata”…

“…et eritis sicut Dii, scientes bonum et malum. » Genesi III, 1-5 (Serpens) « …e sarete come Dei, scienti del bene e del male.”

…e questa sua auto-canditatura sembra essere in netto contrasto con i prefati punti:
*03) laddove è il Logos, immanente alle cose, a governare ogni avvenimento, ovvero a
determinarlo rigorosamente;
*04) il Logos medesimo si identifica come un principio divino;
*05) …legge positiva dello Stato, in quanto diretta espressione del Logos-Principio.
Seneca, a questo punto, sembra peccare di presunzione, in quanto vuole sostituirsi al Logos ed alla sua stessa legge, mentre tutti gli altri la devono accettare “stoicamente”!
In una delle “Epistulae ad Lucilium-107, 11, 5”, Seneca asserisce:
“Ducunt volentem fata, nolentem trahunt!” “Il Fato conduce chi da lui si lascia guidare, trascina chi gli si oppone!”
Appare evidente che, volendo Seneca ergersi a “Faro” della “Monarchia Illuminata”, egli non abbia alcuna intenzione di lasciarsi condurre, bensì voglia, contraddittoriamente, condurre!
Caligola, Claudio, Nerone e tanti altri, avrebbero dovuto sottomettersi con stoica rassegnazione alla legge del Logos (o meglio a quella di Seneca stesso), ma lui no. Tuttavia, alla fine, anche lui è rimasto centripetato e fagocitato dall’inesorabile legge del Logos.
Auspicio di questo saggio breve è quello di enfatizzare alcune delle tante contraddizioni umane e filosofiche del dialettico Seneca.
*
Seneca

Lucia Anneo Seneca (5 a.c.-65 d.c.), figlio di Seneca Il Vecchio.
Lucius Anneus Seneca, o Seneca Il Giovane, filosofo, politico e drammaturgo Romano, nacque a Cordova (Spagna), capitale della Spagna Betica, colonia romana, tra le più vetuste, in un contesto politico e socio-culturale permeato di filo-repubblicanismo e di anti-imperialismo. Tale contesto ebbe degli effetti coattamente univoci sulla formazione del giovane Seneca. Gli Annei, ovvero la genealogia di Seneca, avevano radici molto viete. Erano posteri di immigrati italici in Hispania, vale a dire che erano “Hispanienses”! Va ricordato che, ai tempi della guerra civile, Cordova, che sin dai primordi aveva metabolizzato l’élite economica ed intellettuale di Roma, si era apertamente dichiarata “Pompeiana”, ovvero “Repubblicana”. Seneca Il Vecchio, come tramandato da Tacito negli Annales, apparteneva al Rango Equestre (01) e si trasferì a Roma durante il Principato Augusteo, il che divenne per lui un humus feracissimo per concretizzare i propri progetti, ovvero per introdurre favorevolmente i figli nel contesto socio-politico dell’Urbe.

(01) Rango Equestre/ Ordo Equester: I Cavalieri/Equites, assimilarono gli ideali, gli usi ed i costumi dei Senatori. Le Famiglie Equestri rappresentarono la più topica sorgente di rinnovamento ed integrazione dell’Ordine Senatorio. I vincoli tra Equites e Senatori erano molto serrati in virtù di matrimoni combinati, parentele e sodalizi. Gli Equites, molto ricchi, annoveravano banchieri, imprenditori, commercianti ed agrari. Gli Equites dovevano i loro successi alla ricchezza ed ai rapporti con i Potenti Romani. Molti di essi provenivano dall’Ordo Decurionum ed ascendevano al Rango di Equites esclusivamente ed in virtù del loro censo. Importante enfatizzare l’origine di Seneca da una Famiglia di Rango Equestre, ovvero da una Famiglia dallo Status parificabile a quello Senatorio, per poter comprendere l’incongruente avversione del filosofo nei confronti della Dinastia Giulio-Claudia.

Già dall’adolescenza, Seneca dovette confrontarsi con diversi disturbi psico-fisici. Frequentemente veniva colto da crisi asmatiche o cadeva in deliquio, fenomeni, questi, che lo gettarono sovente nello sconforto e nella disperazione. In una sua epistola ricordò (02-03):

(02) “ La mia adolescenza tollerava facilmente e con una certa baldanza i parossismi della malattia. Tuttavia, in seguito, fui costretto ad arrendermi e giunsi fino a diventar estremamente emaciato. Sovente mi venne l’istinto del suicidio, tuttavia, ciò che mi impedì di compiere l’atto estremo, fu la senilità del mio eccelso Padre. E non riflettei sul modo in cui io, da uomo forte, potessi abbracciare la Morte, bensì sul dolore che avrebbe lacerato mio Padre, per questo motivo. Ne conseguì che obbligai me stesso a vivere e per vivere, spesso, ci vuole un grande coraggio!”
(Epistulae ad Lucilium, 78, 1-2)

(03) “Il parossismo della malattia è effimero. Sembra una tempesta e si dissipa, normalmente, col passar di circa un’ora. Invero, c’è uomo che sarebbe capace più a lungo di tollerare questa penosa sensazione di morte? Finora le malattie tutte ho sperimentato e le loro insidie, nondimeno per me non ve ne è una che sia più tormentosa. Comunque sono malato e mi viene la sensazione di morte. Questa malattia la chiamano i medici “riflessione della morte”. In effetti, di quando in quando, questa apnea mi da il senso di asfissia. Credi, oh Lucilio, ch’io ti narri questi fatti perché sono contento di aver evitato il pericolo? Se gioissi della fine di questo male, similmente ad aver riacquisito la più integra salute, diventerei grottesco, similmente al convenuto, convinto di aver vinto la causa solo in virtù dell’aggiornamento del processo.”
(Epistulae ad Lucilium, 54, 1-4)

(02-03) Questi stralci epistolari sono importanti, perché hanno il valore di una confessione di Seneca, il quale riconosce i suoi problemi psico-fisici che mai, di fatto, lo abbandonarono: crisi asmatiche (crisi epilettiche???), svenimenti (crisi epilettiche???), sconforto, disperazione, eccessiva magrezza, istinto di suicidio. E’ questo l’uomo che ha condannato Caligola, che ha “coraggiosamente” ridicolizzato Claudio dopo la sua morte (Apokolokyntosis), che è stato complice di Agrippina, donna, quest’ultima, che ha abiettamente tradito per giochi e fini di potere? E’ questo l’uomo che voleva “catechizzare” Nerone? E’ questo l’uomo che, in un modo o nell’altro, per circa un ventennio, ha gestito le sorti di Roma e, di conseguenza, del Mondo intero? Da ciò che si evince dalle “Epistulae ad Lucilium”, i suoi istinti di morte, ovvero il suicidio, erano immanenti ai suoi cromosomi e non allo Stoicismo. Semmai è il suo Stoicismo che nasce, non da speculazioni filosofiche, ma dalla sua genetica. Come avrebbe potuto mai questo uomo, che paradossalmente si autodefinisce “uomo forte”, conciliarsi con il modus vivendi di Corte? Seneca ebbe tra i suoi Maestri, che esercitarono su di lui un profondo influsso:
-Quinto Sestio, che per lui fu il modello di un asceta che ricerca un crescente miglioramento grazie alla nuova pratica dell’esame di coscienza. La frequentazione della Scuola Cinica dei Sestii fu topica per la strutturazione del pensiero di Seneca.
-Papirio Fabiano, oratore e filosofo, membro della setta dei Sestii, con influenze ciniche.
-Attalo, Stoico, con influenze ascetiche. Da questi, Seneca imparò i principi dello Stoicismo ed il vezzo per le pratiche ascetiche.
-Sozione di Alessandria, Neopitagorico. Da Sozione, oltre che ad apprendere i principi della dottrina di Pitagora, fu avviato verso la pratica vegetariana che, però, ben presto abbandonò.
Sozione era legato alla setta dei Sestii, fondata all’epoca di Giulio Cesare, che agglomerava elementi derivanti da diverse origini, peculiarmente stoiche e pitagoriche e che professava una vita semplice e sobria, lontana dalla politica!!! Da Sozione venne quindi imbibito di sobrietà e di austerità, elementi, questi, già pesantemente mutuati dalla madre). La Scuola dei Sestii fu, di fatto, una setta che postulava un’etica integralista ed un asfissiante ascetismo psicologico e fisico (profonda e continua autoanalisi ed alimentazione a base esclusiva di vegetali). La domanda sorge spontanea: “Come poté uno Stoico, come poté un Asceta conciliarsi con la vita, con i fasti, con le crapule, con i baccanali ed i saturnali di Corte?” E’ una contraddizione in termini, almeno in apparenza. Intorno al 20 d.c., Seneca si trasferì in Egitto, per un periodo non esattamente documentato. Ufficialmente il Filosofo vi si recò per curare l’asma e la bronchite croniche, ma, in realtà, vi si recò per motivi politici, poiché l’Imperatore Tiberio aveva ordinato lo scioglimento della Setta dei Sestii, di cui facevano parte alcuni dei Maestri dello stesso Seneca. Seneca non inveì, per questo, contro il “Tiranno” Tiberio e neanche ebbe nulla da eccepire, in Egitto, circa il costume dei Sovrani locali, ovvero il ritenersi un “Dio” (EKTHEOSIS). Relativamente a quest’ultimo elemento, Seneca criticò e condannò aspramente, per contro e paradossalmente, Caligola!
E’arcinoto che Seneca fece carriera incensando gli ottimati del momento e detraendo i precedenti.
La sua attendibilità, di conseguenza, è molto scarsa. Al rientro dall’Egitto, Seneca principiò la professione forense, poi seguì un suo Cursus Honorum, tra le cui tappe va ricordata la Questura, preambolo all’ingresso in Senato (31-32 d.c.), in quel Senato corrotto che tanto avverserà la Dinastia Giulio-Claudia, sui cui “dorati libri-paga” Seneca, a lungo e pinguemente, risulterà. Un antico, popolare ed anonimo aforisma latino, recitava così:” Senatores boni viri, Senatus mala bestia” “I Senatori sono buoni uomini, il Senato è una cattiva bestia”! E’ patente la sardonica amarezza del Popolo Romano circa la corruzione del Senato. E’ d’uopo ricordare un altro aforisma, ancora più antico: “Vox populi, vox Dei” (Bibbia, Isaia, 66-6). Se questo postulato vale in addebito a Caligola…
(Considerando che la documentazione a suo carico è relativamente scarsa e strumentalizzata, ovvero si parla di Caligola, come già ripetutamente accennato, su basi di tradizione orale)
…perché non dovrebbe valere in addebito a Seneca, al Senato, a Svetonio, etc…?
Seneca incontrò l’avversione di Caligola, prima, e di Claudio, poi. Ma se la vita di Corte era tanto ributtante, corrotta, perversa, pericolosa, degenerata…perché insistette tanto a “corteggiarla”, ovvero a non evitarla??? Salus populi suprema lex??? Alchimie da filosofi!!! A tal proposito, non si può non pensare al lirico neoteroo Gaio Valerio Catullo, quando nel suo Liber, carme 85, elegiacamente recitava: “Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris ! Nescio, sed fieri sentio et excrucior ! » “Ti odio e ti amo! Perché, tu forse mi chiedi!? Non lo so, ma so che è così e ne sono torturato!” Ovviamente il distico era diretto all’amata-odiata Lesbia, ma, per analogia, lo si può indirizzare al sentimento di odio-amore che Seneca nutriva per il potere!
Messalina…
(la tradizione storica la tratteggia come femmina vanagloriosa, lussuriosa, libidinosa e priva di ogni freno morale) (bella gente frequentava il nostro Pubblico Ministero Seneca)
…, moglie di Claudio, lo rese (Seneca) complice nel processo di adulterio contro Giulia Livilla, sorella del defunto Caligola e nipote di Claudio. Claudio, per questo, lo esiliò in Corsica, dove rimase dal 41 al 49. Seneca mal tollerò questo esilio, in netta contraddizione con i suoi ideali stoici. Ergo, come si può dar credito ad un uomo che filosofeggia sui mali altrui, ma dimostra grande fragilità per quel che concerne i suoi? Ben diceva quindi, allorché citava la sua insigne frase” Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt” “Abbiamo negli occhi i difetti degli altri, ma i nostri ci sono dietro”. Seneca suoleva ripetere questa frase quando intratteneva i “Solone” dell’epoca, i quali, sulla scorta di cognizioni meramente empiriche, pretendevano di parafrasare giudizi ed opinioni in qualsiasi campo. Evidentemente, tuttavia, Seneca dissimulava umiltà dicendo “…i nostri…”. In realtà lui se ne sentiva esente. Tra le numerose opere, scrisse una “Consolatio ad Polybium”, ovvero al potente liberto dell’Imperatore Claudio. Il pretesto era quello di consolare Polibio per la perdita dell’amato fratello, ma la nefanda ed incoerente verità occulta risiedeva nella sua strisciante istanza di intercessione presso Claudio. In effetti, morta Messalina ed in virtù anche della faziosa e spregiudicata diplomazia di Agrippina Minore…
(Una donna ambiziosa, dominatrice, di mesmerizzante bellezza. Ordì un attentato contro suo fratello, l’Imperatore Caligola. Nel 42 d.c. sposò, in seconde nozze, il facoltoso Gaio Passièno Crispo, che più tardi fece avvelenare per ereditarne i cospicui beni. Nel 49 d.c. sposò lo zio Claudio, cioè l’Imperatore. Fu uno scandalo, ma fu immediatamente promulgata una legge che regolarizzava questa unione. Successivamente fece avvelenare anche Il Divo Claudio, di cui divenne “flaminica” post-mortem, ovvero “sacerdotessa”, la massima sacerdotessa dello Stato Romano. La tradizione storica ascrive a Seneca un coinvolgimento in questo crimine. Al fine di offuscare i sospetti, Seneca scrisse un discorso laudativo pro-Claudio, che il novello Principe Nerone pronunziò in Senato. Agrippina riuscì anche ad ottenere, dal Senato, lo status di Principe-Donna, ovvero di “Imperatrice”, carica mai riconosciuta ad una donna. Seneca, che precedentemente anatemizzò Caligola per simili motivi, “stoicamente” approvò. Agrippina fu uccisa nel 59 d.c. dai sicari del figlio Nerone e Seneca, da versato voltagabbana, si affrettò a pronunciare in Senato un’invettiva contro la defunta, “contennenda” Agrippina)
…, seconda moglie dell’Imperatore, nel 49 Seneca tornò a Roma.
Ad Agrippina, quindi, Seneca doveva la propria posizione a Corte e ne diventava ora complice,
per favorire l’ascesa al trono del figlio di questa: Nerone! (Se Nerone, che arbitrariamente ed unilateralmente assolvo come Caligola, ha delle colpe, quanto è quindi grande la responsabilità storica di Seneca?). Il legittimo erede era Britannco, figlio di Claudio e di Messalina, che fu però eliminato. Nel 54 Claudio morì avvelenato (da chi?..Seneca, Agrippina…?) ed il dodicenne Nerone salì al trono, sotto la “guida” di Seneca, il quale, insieme al Prefetto del Pretorio Afranio Burro, governò, di fatto, le sorti dell’Impero. Ma su quali basi, se non quelle della calunnia, del tradimento, del complotto, dell’omicidio…? SENECA E’ STATO UN UOMO DI POTERE CHE SI E’ SCONTRATO CON ALTRI UOMINI DI POTERE!!!
Nondimeno, non appena Nerone ascese al trono, deflagrarono veementi le rivalità e le divergenze tra Seneca ed Agrippina, poiché quest’ultima era onnipresente nella gestione della politica e ciò costituiva un impedimento al personalissimo progetto politico dello Stoico.
Durante il primo quinquennio del principato di Nerone, Seneca acquisì, politicamente, un immenso potere personale, la qual cosa gli permise di arricchirsi a dismisura. Per alienare l’Imperatore dal carisma che su di lui esercitava Agrippina, Seneca approfittò utilitaristicamente delle frizioni germinate ipso facto, tra madre e figlio, nella gestione del potere. Speculando subdolamente su questi attriti ed allineandosi con Nerone, Seneca si valse ad esautorare Agrippina da qualsiasi forma di ingerenza nella gestione del potere. L’epilogo di queste contese fu drammatico, ovvero si consumò il matricidio e molte fonti storiche identificano in Seneca il fomentatore, pro domo sua, di tale terribile evento. Seneca si adoperò immediatamente al fine di rassicurare l’opinione pubblica, indirizzando una lettera al Senato, per mezzo della quale notificava che Agrippina si era uccisa, come conseguenza di un abortito colpo di stato ai danni di Nerone. Il voltagabbana Seneca si era illuso, a questo punto, di avere via libera verso la totale ed incontrastata gestione del potere, ma venne messo in cattiva luce…
(Così recita la tradizione storica, ma se Seneca è una vittima, perché i Claudii sono tutti pazzi e carnefici? Non va dimenticato che la Storia, pur consacrando Ottaviano Augusto quale Pater Patriae, lo condanna, tuttavia, poiché la Pax Augustea era basata sull’oscurantismo nei confronti degli iconoclasti del potere)
…presso Nerone. Seneca fu accusato di ammassare indebite e fraudolente ricchezze ed il suo carisma sull’Imperatore naufragò. Seneca, nel 62 d.c., si ritirò quindi a vita privata e, da consumato “pedofilo”, sposò la giovanissima Paolina, in spregio allo Stoicismo del Maestro Attalo ed alla mortificazione della carne postulata dal Neopitagorismo del Maestro Sozione. Nel 65, sospettato (Perché la Storia condanna Caligola senza prove e fa di Seneca un martire, in quanto semplicemente sospettato?) di far parte della congiura dei Pisoni, ricevette l’ordine di suicidarsi. Seneca pose fine alla sua incoerente e contraddittoria esistenza con il poco nobile atto del suicidio, ammantandolo, tuttavia, dell’alone sublime, quasi orfico, dell’ideale stoico, di quell’ideale stoico che, nondimeno, si fonda su un monismo naturalistico e razionalistico, ovvero su un ideale di saggezza, a cui si approda conducendo un’esistenza secondo natura, vale a dire accogliendo con indifferenza (apatia) e paziente sopportazione l’ineluttabilità della legge del Lògos, la quale gestisce ogni vicenda umana. Ma allora, Caligola, Nerone, Claudio, non erano soggetti anch’essi, benché Imperatori, a questa legge universale? Ed allora, perché condannarli ed auto-assolversi? Ergo, perché tentare disperatamente, affannosamente, di alterare l’ineluttabilità della legge, di quella legge che il Lògos aveva stabilito per Nerone nella sua umana singolarità e del mondo intero a lui asservito, nella sua generalità!? Una critica oggettiva sull’uomo Seneca si presenta alquanto scabrosa se non, addirittura, utopistica. Se da una parte si resta ferventemente estasiati per il suo magistero mentale, per i suoi immensi valori antropologici ed ontologici, dall’altra si può enfatizzare la sua eccessiva indulgenza, fino al supinismo, nei confronti del potere. Altresì si resta sbigottiti dalla sua vanità, ovvero dal suo amore viscerale per il denaro e per gli onori. In definitiva, si arguisce un’incolmabile voragine tra le sue astrazioni stoiche e la pragmatica delle loro applicazioni. Inconfutabilmente, quella di Seneca, può essere annoverata tra le icone storico-culturali più topiche del mondo antico. Epigono della “Nuova Stoà”, di cui Panezio fu edificatore, Seneca ha introdotto, nella cultura stoica, lo stigma indelebile del suo temperamento, perpetuamente oscillante tra la negatività più estrema e la positività più acuta, ovvero l’istanza (giammai concretizzata) di estollersi, come tetragona ipostasi del sòfo stoico, al di là della negatività e della positività, al fine di egemonizzare gli eventi. Onde l’idiosincrasia tra due trend antitetici: l’uno che anelerebbe approdare all’umanitarismo e l’altro che anelerebbe, eteroclitamente, approdare all’Aristocraticismo. Parimenti controversa fu in Seneca anche la perplessità tra un razionalismo, che precludeva all’essere umano ogni possibilità mistica, ed un irrazionalismo che, con angoscioso ed irrefrenabile impulso, vergeva verso un rigoroso ascetismo. Le sue crude e rigide pronunziazioni nei confronti della vita fisica e delle sue manifestazioni, definite “ peso e condanna dell’animo” sono l’evidenza dell’ascetismo albergante in lui come anelito, al punto di rendere verosimile la voce storica di una sua riflessione circa la conversione al Cristianesimo, a posteriori di scambi epistolari con San Paolo. Motivo in più per entrare in conflitto con il potere imperiale!? Dal punto di vista dialettico-filosofico la congettura sembra non reggere, poiché la teleologia del Cristianesimo consiste nella salvezza dell’anima, mentre lo Stoicismo ricerca la serenità dello spirito. Nondimeno, nel teorema etico dello Stoicismo senecano compare un elemento inusitato, ovvero un misticismo che anelerebbe ad intridere di sé il razionalismo, ma, non riuscendo ad individuare un comune punto di riferimento, si trascina poi in continue incongruenze, stereotipi di qualsiasi filosofia in crisi. In crisi non era soltanto l’uomo-filosofo Seneca, ma l’intera società romana del tempo. Ed un uomo in preda a siffatta crisi, come può enunciare giudizi storici oggettivi, soprattutto in merito a Caligola, ergo non tanto giudizi in quanto conseguenze delle azioni di Caligola, ma in quanto conseguenze del funambolismo psicologico e dialettico del Grande Filosofo! Ad enfatizzare il vassallaggio politico di Seneca, si può citare una delle sue innumerevoli opere: “Ludus de morte Claudii, o Apocolocynthosis”. Quest’opera fu scritta dopo la morte di Claudio, ovvero durante il Principato di Nerone, al quale, Claudio, era particolarmente inviso! Usando un’espressione latina, Seneca escogitò una “Captatio benevolentiae”! Quest’opera, una satira menippea, è amara e sferzante nei confronti di Claudio, la cui ombra, dopo aver postulato indarno di essere cooptata tra gli Dei, è, per contro, scagliata negli Inferi, su delibera del Consiglio Celeste! Il titolo “Assunzione fra le zucche”, è la patente e sardonica antifona di un’apoteosi al contrario! Seneca era un anemoscopio egro di allotropia politica, ergo come fidarsi delle sue speculazioni sulla Dinastia Giulio-Claudia in generale e su Caligola in particolare?




 

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Published on e-Stories.org on 06/28/2011.

 
 

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